Sono tanti gli strumenti che caratterizzano i più recenti approcci al marketing. Il più celebre (e celebrato), insieme a Personas e Value Proposition, è di sicuro la Customer Journey. Racconta vizi e virtù, prodezze e abusi che caratterizzano il rapporto del nostro cliente con l’offerta aziendale. Traccia un racconto che ci permette di mettere a fuoco disagi ed entusiasmi, gioie e frizioni che il cliente prova quando cerca una soluzione ai suoi problemi.
Le promesse della Customer Journey
La Customer Journey è uno strumento che ci aiuta a metterci nella testa del cliente, a capirne le sfumature che mai comprenderemmo se ci limitassimo a vendere. È il grimaldello per una visione empatica del mercato, una visione che ci fa indossare i panni, a volte lussuosi, a volte logori, del cliente. Una visione che guarda alla nostra offerta in modo lucido.
Ci consente di non perderci in un’autoindulgenza tutta legata alla nostra percezione degli sforzi fatti. Fuori dalla Sindrome di Pigmalione, la nostra opera, i nostri prodotti e il nostro servizio perdono quel carico emotivo che li rende figli da difendere. Li spostiamo in una chiave oggettiva che si focalizza sul punto di vista del possibile cliente.
Speranze deluse?
Fin qui tutto bene. Un tool da governare e dal carattere essenziale per coordinare azioni di marketing. E per raccordarle con una lettura strategica del mercato. Ma c’è qualcosa che non torna.
Mi riferisco alla monodimensionalità. Mi addentro su questioni difficili e mi serve un aiuto. In un libro meraviglioso come Range, c’è un passaggio che ci aiuta a capire cosa intendo.
L’autore, David Epstein, ci parla di Herminia Ibarra, una docente di comportamento organizzativo alla London Business School. Dopo aver introdotto le sue prime esperienze nello studio delle carriere professionali, ci spiega le sue conclusioni.
“Impariamo chi siamo solo vivendo, e non prima”
“Ibarra ha concluso che ottimizziamo le nostre scelte lungo tutto l’arco della vita testando diverse attività, gruppi sociali, contesti, lavori, carriere, e poi riflettendo e modificando le nostre narrazioni personali. E ricominciando daccapo. Se questo suona facile, considerate che è esattamente l’opposto di una diffusa crociata di marketing che assicura ai clienti di poter scoprire la propria miglior carriera solo attraverso l’introspezione. Professioni redditizie e un intero settore consulenziale e quiz sulla personalità sopravvivono su questo concetto”.
Stelle su Misura?
Sembrano le Stelle su Misura di Theodor W. Adorno. È in quel libro che descriveva l’Oroscopo come un’indicazione vincolante di limitate possibilità che il normale cittadino americano poteva attendersi e cogliere.
In altre parole, più che prevedere il futuro, le Stelle ci restringevano il campo d’azione. Ci fissavano in un comportamento sociale prevedibile, normale, corretto. Attraverso la ristretta narrativa di quanto ci può accadere nella descrizione quotidiana del nostro segno zodiacale emergono destini molto banali e limitati.
“Tutta quella roba che vuole trovare i punti di forza e debolezza e così via, dà alle persone la licenza di incasellare se stesse o gli altri in modi che non tengono conto di come cresciamo, ci evolviamo, sbocciamo e scopriamo cose nuove”, mi ha detto Ibarra. “Ma la gente vuole delle risposte, quindi queste iniziative vendono”. È molto più difficile dire: “Beh, inventatevi qualche esperimento e vedete cosa succede”.
Sembra la summa del Lean Startup.
“Basta rispondere alle domande di un quiz e, ecco la promessa, si illuminerà la carriera ideale, non importa ciò che gli psicologi hanno documentato sul cambiamento personale nel tempo e nel contesto. Ibarra ha criticato gli articoli di buon senso come quello del Wall Street Journal sul ‘Percorso indolore verso una nuova carriera’, che ha decretato che il segreto è semplicemente definire un quadro d’insieme di ciò che si vuole prima di agire”.
Teoria e pratica
“Invece, mi ha detto, in un’abile inversione di un assioma sacro, ‘Prima agisci e poi pensa’. Ibarra ha fatto ricorso alla psicologia sociale per sostenere in modo convincente che ognuno di noi è fatto di numerose possibilità. Come ha detto: “Scopriamo le possibilità facendo, provando nuove attività, costruendo nuove reti, trovando nuovi modelli”. Impariamo chi siamo nella pratica, non nella teoria”.
Questa esplosione di possibilità è una pietra tombale su una lettura statica di segmenti, personas, customer journeys. Il problema non è tanto scrivere e condividere queste aspettative. Che va bene. Ci aiuta senz’altro.
Ma serve comprendere che il cliente vive singole esperienze e scelte situate nel tempo e nello spazio (situated choices) che non rispondono a un’identità riconoscibile.
Ogni aspettativa attorno a una persona legata alla sua appartenenza a un segmento di mercato (e quindi a una customer journey) va sostituita con una comprensione immediata, istantanea della sua particolare scelta di quel momento in cui lo incontriamo.
Dobbiamo capire la persona “in diretta”, nella conversazione e nella relazione attivata su punti di contatto (touch point) fisici o digitali. Essere reattivi.
Attenziò, concentraziò, ritmo e vitalità
Perché la stessa persona potrebbe appartenere a un segmento alla mattina e a un altro al pomeriggio. Come tutti noi potremmo essere brillanti ed estroversi con un gruppo di amici la sera, ma accademici e professionali la mattina al lavoro.
“Stefano, tu che sei un creativo esperto di marketing, dimmi…”
“Stefano, tu che sei un ingegnere e hai studiato finance, dimmi,,,”
Personalità che mutano e ci rendono diversi sulla base del contesto. Context is the king. Tutto il resto serve solo a semplificarci la vita, ma dobbiamo essere consci del velo metodologico che cela una realtà molto più complessa dei nostri schemi.
Ci vuole stile per parlare a un mondo esploso
L’improvvisazione quasi jazzistica richiesta per un marketing relazionale e conversazionale rimette al centro competenze empatiche e skill di reframing tipiche dell’essere umano.
Chatbot e compagni prevedono uno spettro limitato di capacità di interpretazione di contesti incontrollabili. Dietro DeepMind c’è una straordinaria capacità di riconoscimento di pattern. Che restano pattern e non comportamenti.
L’incasellamento dell’Oroscopo e delle Customer journeys nasconde il nostro desiderio di vedere comportamenti accettabili secondo la nostra lettura del processo. Easy to sell e non Easy to buy.
E allora viva l’arte del commerciante che sa adeguare stile e tono. Non solo per ogni diverso cliente. Ma per lo stesso “identico” cliente che a volte è sereno, a volte preoccupato e a volte anche arrabbiato. E salta veloce da una customer journey all’altra.
Per fortuna oggi abbiamo le capacità tecnologiche per trasformare il marketing in un processo di continuo adattamento che sa andare avanti e indietro nel funnel di conversione del cliente, ma anche uscire dal funnel ed entrare in un altro quando l’umore del cliente lo richiede 🙂