C’era un tempo in cui ognuno in azienda lavorava per conto suo. Aveva un bel mansionario cui far riferimento. Il lavoro specializzato consisteva in un’esecuzione attenta di compiti prefissati. Il capo comandava, controllava, giudicava. Dava le indicazioni sul risultato finale. Era lui il responsabile. Il solo responsabile. Dall’altra parte stava un esecutore solerte e zelante e nondimeno controllato e misurato attentamente. Niente meeting. Niente discussioni.
Poi è arrivato un mercato complesso fatto di clienti esigenti. Un mercato al tempo stesso sempre più affollato di concorrenti agguerriti. Di conseguenza sono nate richieste di differenziazione. Di miglioramento di efficienza, qualità e servizio in una contesto competitivo sempre più sfidante. E allora agli “esecutori” è stato chiesto qualcosa di nuovo. Pensiero. Confronto. Creatività.
La nascita dei meeting
Serviva a quel punto un ingaggio nuovo delle persone. Ogni ambito poteva diventare la base per un elemento di originalità. E il lavoro chiuso in se stessi non è più bastato. Serviva incontrarsi. Discutere. Confrontarsi e sviluppare nuove idee.
Per stimolare il dialogo è stato così necessario codificare un approccio intelligente ai meeting e alle riunioni. Niente brainstorming. Niente improvvisazione. E il Lean thinking l’ha fatto. Rituali e sistemi di comunicazione riconducibili alle intuizioni del Design Thinking. Il visual management è stata la massima espressione di questo rituale. I postit erano simbolo di creatività. Della libertà di correggere le proprie scelte. Di farsi convincere degli altri. Di sbagliare e cambiare idea.
Poi l’Agile management ha ricodificato ancora il tutto per un contesto di grande variabilità, incertezza e innovazione. Gli sprint e la gestione dinamica del “product backlog”, i ruoli dello scrum master e del product owner, gli stand-up meeting e le serie di Fibonacci per valutare il carico di lavoro, … Tutti elementi di una nuova e più matura ritualità.
Irrompe il virus
Ma poi, sul più bello, siamo rimasti tutti a casa. Il Covid ci ha costretti a un lavoro di tipo nuovo. A distanza. Con le conference call. Zoom e Teams, Miro e Mural, “Sei in muto”, “Che bello sfondo”, …
E all’improvviso è stato così facile incontrarci. Convocare una riunione è diventata una prassi comune. Così comune che forse abbiamo esagerato. È stata una sbornia collettiva di meeting a un ritmo serrato. Ingestibile, travolgente, inutile. Senza continuità, senza senso.
Meeting, sia detto, apparentemente utili a un decision making condiviso, istantaneo, ma paradossalmente anche inefficace. Perché le decisioni hanno bisogno di un processo mediato. Deve esserci un travaglio. La possibilità di pensare, di approfondire. Senza un processo di sedimentazione e in qualche modo di sforzo e sofferenza non avviene un’elaborazione capace di dare spessore all’esperienza.
Il new normal
Si ricomincia con una nuova ritualità tutta da inventare. Si ripresenta la necessità di codificare comportamenti e valorizzare tool collaborativi. La ragione però è quasi simmetrica e speculare a quella della prima ondata. Se prima obbligava persone chiuse nel loro lavoro quotidiano e individuale a incontrarsi, ora serve l’opposto. Bisogna in qualche modo frenare la corsa al “continuous meeting”.
Proprio quando si capivano finalmente tutti i limiti del brainstorming, sono saltati i freni al meeting selvaggio. Mentre i lunghi appelli a non morire di riunioni trovavano soluzioni in una prassi snella e strutturata, all’improvviso si è propagata un’ansia da videoconferenza.
E i risultati, secondo tante ricerche, sono stati negativi. Zoom sembra ridurre la creatività. Il solito Frey ci dice che lavorare da remoto sviluppa un approccio incrementale all’innovazione, ma fa sfuggire i cambiamenti più profondi.
Eppure è una narrazione che non mi convince.
Non serve una reazione luddista alla tecnologia digitale. Tutt’altro.
Serve continuare un percorso verso la ritualità e la cadenza che ridia il ritmo giusto al lavoro. Che continui e non interrompa un percorso pluriennale verso un modo agile e snello di lavorare e collaborare. Il confronto deve tornare elemento di supporto all’esecuzione attenta e accurata del lavoro.
E la ritualità deve tornare a essere centrale, questa volta non per costringere a distogliersi dal computer e a confrontarsi con gli altri, ma per dare alla relazione tra gli esseri umani il contesto più giusto e corretto per esprimersi.