Spezzettare la vita in piccole parti da spiluccare. Che sia la macchina, la casa o il posto di lavoro. Airbnb, Uber, WeWork. E tanti altri che ci consentono di consumare servizi e prodotti che una volta ci avrebbero costretti a mutui e prestiti onerosi. E in più ci avrebbero obbligati a scelte di lungo periodo, a volte irrevocabili. Una leggerezza che ubriaca e ci fa sentire liberi come mai in passato.
Uno scenario ben raccontato da sociologi e filosofi. Zygmunt Bauman per tutti nella sua epopea della Vita Liquida. Ma in realtà riscontrabile nella lettura che tanti hanno fatto dello sviluppo dell’economia, almeno occidentale, negli ultimi decenni.
L’ufficio può diventare una postazione di coworking. La macchina una veloce corsa con Lyft. Il pranzo me lo consegnano al parco.
Così WeWork arriva fino in fondo e a New York apre uno spazio che integra diversi servizi. Postazioni di lavoro, of course, ma anche un’area per consumare un pasto o per comprare dei prodotti selezionati.
Luci e ombre della gig economy
Tutto è più fruibile in questo mondo. Più opzioni, più quantità, forse solo meno intensità. L’impegno per scegliere la propria abitazione, la propria vettura, il proprio ufficio si stempera in scelte veloci, a volte superficiali.
Milan Kundera, all’inizio di un suo famoso libro, raccontava a modo suo il concetto di Eterno Ritorno di Nietzsche.
In un mondo in cui si vive una volta sola, tutto diventa impegnativo e pesante. Se le scelte si ripetono indefinitamente invece niente ha più importanza reale. Possibilità infinite per un coinvolgimento minore.
Richard Sennett racconta i limiti dell’user-friendly in un suo libro. Se non creo una difficoltà, l’essere umano non si impegna e non crea una relazione più profonda attorno alla sua esperienza.
Una storia che nasce con Ford
Abbiamo assistito negli anni alla trasformazione dei tradizionali processi industriali fondati su grandi lotti di produzione di un unico prodotto. La Model T di Henry Ford è il punto di riferimento ideale di questa impostazione. Poi è arrivato il Giappone. Sono arrivati consumatori che richiedevano varianti e servizio personalizzato. E per farlo si è rotto il vincolo dell’efficienza locale per comprendere che il valore può essere fornito se si riesce a cambiare velocemente. Oggi produco una macchina nera, ma fra pochi minuti posso farne una rossa.
Estendere questa idea a tutto ciò che tradizionalmente acquistiamo è stato naturale. E il mondo digitale ci ha dato la possibilità di trasformare in servizio gran parte di ciò di cui abbiamo bisogno. Su questo e altro, non è male leggere Ash Maurja.
Quel che viene a mancare
È un’idea seducente quella della leggerezza. La possibilità di cambiare continuamente (posto di lavoro, casa, amante) sembra permetterci scelte infinite. Ma forse ce ne sottrae una fondamentale. Le prostitute non baciano i clienti. Non so se sia vero. Ma l’idea di riservarsi un contesto più profondo e saldo sembra inevitabile. Altrimenti tutto si destabilizza.
È per questo che dobbiamo analizzare le aziende che lavorano nel mutevole e poco stabile mondo digitale. In un contesto così precario e instabile, le migliori riescono a costruire team che si esprime nel medio e lungo periodo. La loro crescita si fonda su team affiatati che, come ciurme in mezzo a un mare in tempesta, remano fianco a fianco nella stessa direzione. Hanno bisogno di rituali, di collaborazione, di metodo. Agile management e Lean Startup. Con un tocco di Design Thinking. Soluzioni che preservano la leggerezza del Fail Fast e che però permettano la lentezza di legami non effimeri.
C’è un percorso lento nell’organizzazione e nelle relazioni con i partner che deve bilanciare la velocità di business in continua evoluzione. Ne ho parlato a lungo in La Trappola del Business Plan. Ogni giorno ritrovo esempi che affermano l’urgenza di studiare la relazione tra velocità e intensità. È un tema fondamentale per due ambiti. La strategia del nostro business, troppo lento nel cambiare. La crescita delle nostre organizzazioni, troppo veloci nel disgregarsi.