Come scegliere il team di un progetto strategico

Ce lo chiedono sempre all’inizio di un progetto. Chi deve partecipare? Quanti? Con che profilo?
Lo sappiamo bene che vale la regola “First who, than What”. Quindi non possiamo che essere entusiasti di ospitare un intervento di Matteo Cocco, professionista capace di leggere sempre in modo eccellente bisogni e sfide delle aziende. Matteo in questa occasione ci regala una guida essenziale e davvero utile nella costruzione di team di lavoro in progetti di innovazione strategica.

Team di lavoro e design thinking

Il cambiamento rapidissimo e disruptive e l’imprevedibilità del futuro anche prossimo rendono la sfida della strategia tanto più necessaria quanto più difficile. Fare strategia oggi richiede strumenti e metodi dinamici. Rapidi. In grado di accompagnare i cambiamenti e non di frenarli. Entra in gioco dunque il design thinking, una metodologia ormai imprescindibile per risolvere problemi complessi e generare innovazione.

Uno dei pilastri fondamentali del design thinking è la collaborazione nel processo di generazione di idee e soluzioni. Tim Brown, il CEO di IDEO, lo definisce proprio come “un approccio incentrato sulle persone e collaborativo alla soluzione dei problemi”.

Tecnicamente un brainstorming lo si può anche fare da soli, ma non offre grandi spunti innovativi.

Quando si affronta un progetto con metodologie collaborative diventa centrale quindi assicurarsi di avere le persone giuste nel gruppo di lavoro.

I vantaggi della diversità

Oltre all’efficacia in sé, vi sono altri vantaggi – importantissimi per un’organizzazione – derivanti dal coinvolgimento di più persone diverse.

  • Il primo è la maggior certezza che la soluzione non rimarrà un piacevole esercizio di stile. Questo è vero se a venire coinvolto è chi dovrà concretamente attuare il piano. Aver avuto la possibilità di dire la propria. Essere stati ascoltati. Vedere che le proprie idee siano state realmente prese in considerazione e messe a confronto con le altre. Tutto ciò fa sì che si percepisca il risultato finale come proprio. E che di conseguenza la motivazione e l’impegno ne emergano rafforzati. Per questa ragione accade frequentemente che i partecipanti alle sessioni strategiche assumano poi il ruolo di champion aziendali, di motivatori e punti di riferimento del cambiamento per tutti gli altri.
  • Il secondo beneficio è dovuto al fatto che all’interno di un’organizzazione ciascun soggetto ha probabilmente acquisito nel tempo un patrimonio di esperienza e visione personale che non sempre viene condivisa. Il processo collaborativo ha invece proprio la funzione di portare alla luce conoscenze individuali e trasformarle in un vero e proprio – e preziosissimo – asset aziendale. Affiorano qui echi di Peter Drucker quando ancora negli anni ‘60 parla di knowledge economy e della rilevanza che la conoscenza ha acquisito nel tempo rispetto ad altre parti del patrimonio aziendale, ormai evidentissimo oggi che il valore di un’azienda è mediamente costituito in grandissima parte dai cosiddetti asset intangibili.

Quali persone?

Assodato dunque che l’approccio collaborativo è necessario, le due domande più frequenti a cui bisogna dare risposta quando si organizza una sessione di innovazione strategica sono quante persone coinvolgere e quali. Qui proverò ad affrontare la seconda.

La prima considerazione, quasi ovvia, è che la risposta nel merito dipende dal progetto che si sta affrontando. Tuttavia in base alla mia esperienza vi sono tre criteri principali da seguire.

  • Il ruolo. È importante che all’interno del team siano rappresentati diversi ruoli, che abbraccino le tre diverse prospettive del pensiero critico: l’esperienza operativa (come quella a diretto contatto con il cliente), l’expertise funzionale (i manager e i leader di aree di supporto, come il marketing), e chi possiede un orientamento creativo e innovativo (figure trasversali, advisor interni, responsabili dell’innovazione). In base al progetto ciascuna prospettiva dovrà avere un peso differente: se per esempio il progetto è strategico le figure di leadership e innovative saranno preponderanti. 
  • Le competenze. Può accadere che si confondano le competenze con il ruolo; ma mentre quest’ultimo è l’attribuzione formale di una responsabilità nell’organizzazione, le competenze sono il saper fare risultante dall’intero percorso di carriera di un individuo. A mio parere il team ideale dovrebbe essere t-shaped: un mix di competenze trasversali (di project management per esempio, o derivanti dall’aver ricoperto più ruoli diversi all’interno o all’esterno dell’azienda) e competenze verticali (persone specializzate che conoscono processi o settori in modo approfondito).
  • Infine, le qualità personali. Terze ma non ultime, le attitudini sono un argomento spesso controverso, eppure rappresentano l’ingrediente segreto per il successo di un team. Dalle qualità dei singoli dipendono l’armonia all’interno del team, la quantità e qualità dei contributi, il desiderio di partecipare, la dedizione alla causa, la passione… È importante che nel team vi siano dunque persone che abbiano dimostrato volontà di mettersi in gioco e di assumersi qualche rischio, propensione al cambiamento e capacità di comunicare. Nel contempo è altrettanto necessario che non vi sia chi prevarica, chi potrebbe sfruttare la propria posizione di autorità per indurre gli altri ad appiattirsi sulle sue idee, chi non rispetta le figure più junior.

Conclusioni

In conclusione, il processo preliminare di composizione del team è indubbiamente complesso. E forse per questo spesso sottovalutato. Da esso tuttavia dipende gran parte del successo del progetto. Questo sia in fase di pianificazione che in fase di attuazione – che poi è quella che conta davvero.

By stefanoschiavo