Anni fa introducendo “Quello che non” in un concerto, Francesco Guccini ha espresso un’idea che aveva una storia dietro, ma che si adattava splendidamente a quel brano. Era una canzone tra le sue migliori. Scevra da eccessi politici figli dei tempi e connessa con il cruccio esistenziale che meglio connota l’originalità del cantautore di Pavana. Meno estri carducciani e più Montale, insomma. Diceva che siamo definiti più da quel che non siamo, da quel che non facciamo che dalle scelte e dalle azioni conseguenti. O meglio. Forse la scelta di cosa non ci caratterizza serve a scoprire e costruire un’identità più veritiera. Cosa c’entra questo con la Realtà Virtuale? Un passo alla volta…
Esplorazioni nei mondi virtuali
Prima di addentrarci nelle magie tecnologiche dei mondi virtuali, dobbiamo conoscere anche alcune storie significative di chi, dal mondo dell’arte, del design e dell’architettura, sta leggendo il nuovo mezzo. L’accelerazione in questo senso è stata prodotta dal Covid e dalla forzata chiusura di tanti spazi pubblici di fruizione culturale.
Ecco allora T.E.A.M. che a Rovigo si imbarca nella costruzione virtuale del Padiglione di Maurizio Sacripanti progettato per l’Expo del 1970 a Osaka. Padiglione in realtà mai costruito, ma solo progettato. Oggi però fruibile grazie a un visore di realtà aumentata. Il tutto per ora in un tour su prenotazione, ma presto a casa per chi ha Oculus.
E poi a Bologna il lavoro di Fiorenza, Andrea e tutti i protagonisti di La mappa del cuore di Lea Melandri. Spettacolo che già di per sé risulta molto affascinante, ma che anche in questo caso aggiunge uno step nella relazione con il pubblico per mezzo di una versione in VR. Per ora è fruibile in un contesto ibrido che sta girando la Penisola.
Andrea mi ha detto che la prima idea per questa versione è stata quella di mettere una telecamera al centro del palco e registrare lo spettacolo. Qualcuno pensa che non sia realtà virtuale, ma solo un video a 360 gradi. È vero da un punto di vista tecnico. Ma forse no da un punto di vista artistico.
Il pubblico entra in scena
Immergere il pubblico nel mezzo della scena è un modo per rompere la quarta parete. Un’esperienza dal di dentro che avvicina lo spettatore agli attori. È evidente che siamo al punto zero della dimensione virtuale del teatro. Come quando il cinema ha piazzato una macchina da presa di fronte a un palco. E così è rimasta la dimensione cinematografica finché non ci hanno pensato Georges Méliès, Fritz Lang e Orson Wells a inventare una vera nuova arte.
Ma quella che ho fatto non è proprio un’analogia azzeccata. C’è una profonda differenza tra la transizione dal teatro al cinematografo e quella dal teatro alla realtà virtuale. Proprio in questa prima, incerta e titubante soluzione, in quella telecamera a 360 gradi al centro del palco, si può scoprire che non si tratta della stessa operazione.
Non stiamo infatti, con questa azione, solo registrando uno spettacolo teatrale per metterlo in un altro mezzo di fruizione. Perché esiste una caratteristica, una sorta di grado di libertà in più nel VR, anche in questa prima forma. E non è il punto di vista nuovo, immerso nella scena anziché relegato al margine. Non è solo questo.
Il nuovo grado di libertà della Realtà Virtuale
Indossando i visori, anche senza alcuna interazione, senza strumenti per agire sull’ambiente, senza relazioni sociali con altri partecipanti, ci è già consentito qualcosa di radicalmente nuovo. Lo spostamento da uno spettacolo fruito da un palco del teatro o da uno schermo del cinema a un ambiente in VR, per quanto fisso e senza interazione, ci permette di muovere la testa in diverse direzioni. Di guardare altrove.
Con il visore che indossiamo per proiettarci in un universo parallelo e virtuale, possiamo scegliere cosa guardare, anzi dobbiamo proprio scegliere cosa guardare. Ma c’è di più. E forse si tratta della cosa più importante. Dobbiamo scegliere cosa “non guardare”. Siamo costretti a perderci qualcosa.
Quella di avere una visione a 360 gradi è infatti una libertà bifronte perché pur attivando una scelta “libera” e volontaria, crea anche un senso di perdita, di FOMO, una sgradevole sensazione di non accedere a tutto.
Fear Of Missing Out. La paura di perdersi qualcosa e di non stare al passo coi tempi ha caratterizzato gli anni passati. Una canzone di Gaber ne anticipava gli effetti ben prima di Internet e dei Social. Inevitabile conseguenza dell’aumento delle sorgenti di contenuto.
Oggi però quella sindrome ha perso il suo smalto. È in molti forte la consapevolezza che in effetti non possiamo essere al passo con tutto. Il mondo è esploso. Ci sono mille centri lontani dalla capitale dell’Impero. Trantor è in declino. La periferia, attraverso la Rete, diventa nuovo centro. I centri si moltiplicano, confondono e perdono. E noi dobbiamo arrenderci, un po’ delusi, un po’ riconoscenti, a questo nuovo universo a mille dimensioni. Così lontano dalle distopie marcusiane.
Un’esplosione di punti di vista
L’autore un tempo ci raccontava tutto. Poi ha cominciato a nascondere dettagli, a mischiare le carte e le interpretazioni. Oggi rimette a disposizione una visione completa, ma non esperibile in tutti i suoi dettagli. Ogni spettatore vedrà qualcosa di diverso. Come nella vita reale, lo stesso fatto avrà non solo mille interpretazioni, ma anche mille interazioni diverse e uniche.
Non stiamo rifiutando un contenuto che non vogliamo vedere o che non condividiamo. Non è come coprirsi gli occhi davanti a un film dell’orrore. Piuttosto uno spettacolo in VR è l’esito della ricerca di artisti come i Punch Drunk. Che in uno spettacolo costruivano un set gigantesco per migliaia di spettatori che si muovevano mascherati, soli, ma vicini. Attraversando le enormi superfici, come in un film di David Lynch, incontravano attori che interpretavano scene o visitavano spazi estremi della scenografia.
Dopo tre ore ognuno aveva visto una storia diversa fatta di frammenti inconciliabili. Ognuno aveva assistito allo stesso spettacolo. Ma ognuno aveva visto e incontrato cose diverse. Come nella vita mille traiettorie individuali si mischiavano a costruire visioni immaginarie individuali mai così lontane da quell’idea inattuale di comune inconscio collettivo.
Il carattere eversivo della Realtà Virtuale
La Realtà Virtuale percorrerà ulteriori passi per maturare. L’immersione in uno spazio registrato è solo l’inizio. C’è da costruire un’interazione con lo spazio teatrale. Si possono manipolare gli oggetti in scena. E gli oggetti modificati possono arrivare ad altri spettatori. Si possono far interagire attori e spettatori e gli spettatori tra loro. In un’esperienza asincrona o sincrona. E così via.
Ma al di là di tutte le sperimentazioni in corso e in arrivo, il carattere eversivo della Realtà Virtuale sta già tutto lì, nella possibilità di attivare un pensiero critico costringendo alla rinuncia e accettando la propria visione parziale. Errata, ma unica e propria, come la vita di ognuno.
Nell’innovazione esiste il concetto di filtro strategico. Una lista di cosa da fare e non fare che caratterizza il modo in cui traduciamo le nostre intenzioni in pratica. Sono vincoli che riguardano una scelta inevitabile di fronte alle molte opportunità che ci stanno di fronte.
I modelli strategici per il cambiamento nelle aziende devono tenere in considerazione questo elemento che permette di differenziare la nostra azione da quella dei competitor. Di dare una personalità e un carattere a un brand che rischia la banalizzazione quando cerca solo di omogeneizzare la propria azione al comportamento degli altri. Quando cerca di colmare gap anziché costruire spazi di originalità.
Alleniamoci nei mondi virtuali a decidere da che parte guardare e non facciamoci prendere dall’ansia di non essere al corrente, di non vedere abbastanza.