Vi è mai capitato di stare su LinkedIn leggendo qua e là qualche post e avere una strana sensazione? Un po’ come quando si entra in una stanza e si sente che qualcosa è fuori posto, ma non si capisce cosa. Provate ora a farci più attenzione. “I vantaggi sono molteplici: Aumento della produttività, miglioramento dell’efficienza…” Due punti seguiti da lettera maiuscola. La traccia più chiara dell’AI nei post.
Post successivo e… “È importante sottolineare che” all’inizio di ogni paragrafo. “Inoltre”, “Tuttavia”, “Pertanto” come fossero un mantra, per non parlare degli elenchi puntati, sempre presenti, sempre perfettamente ordinati.
Questi post con ogni probabilità non sono frutto del proprietario del profilo, o almeno non completamente. Sono in realtà il risultato di un copia-incolla di un output di un LLM, come ChatGPT. L’AI si è infiltrata nei nostri feed, mascherandosi da saggezza umana. Ma quindi stiamo davvero lasciando che l’AI parli al posto nostro? E se sì, stiamo perdendo qualcosa di importante nel processo?
Nel panorama professionale odierno l’intelligenza artificiale si è affermata come un alleato indispensabile in numerosi ambiti a partire da quello della produzione di testo, ma il confine tra efficienza e autenticità può diventare pericolosamente sottile.
Una risposta a questa sfida può però risiedere nel concetto di “co-intelligence”. Ethan Mollick, nel suo omonimo illuminante libro “Co-Intelligence” ci offre una prospettiva su questo tema. Propone l’idea di diventare “Cyborg” – non nel senso fantascientifico del termine – ma come metafora di una simbiosi armoniosa tra mente umana e intelligenza artificiale. Questa collaborazione si manifesta in due approcci principali. Il primo è quello del “Centauro”, dove uomo e AI si alternano in compiti distinti, il secondo invece è quello appunto del “Cyborg”, dove l’integrazione è più fluida e costante, con l’AI che aumenta e potenzia le nostre capacità cognitive in tempo reale.
Ma prima di esplorare come possiamo applicare questi concetti alla nostra scrittura quotidiana bisogna forse sviluppare la capacità di riconoscere i segnali rivelatori di un testo generato interamente dall’AI.
Oltre ai “due punti, lettera maiuscola” citati sopra, ci sono molti altri indizi. Frasi introduttive ripetitive, transizioni logiche prevedibili, un tono costantemente formale e distaccato, e una tendenza a ripetere concetti con minime variazioni sono tutti segnali di un testo generato dall’AI.
Ora, perché il copia e incolla diretto degli output dell’AI è controproducente? Innanzitutto c’è una perdita significativa di autenticità. Il vostro pubblico cerca la vostra voce unica, non un testo generico che potrebbe essere stato scritto da chiunque (o qualunque cosa). Poi c’è una mancanza di profondità contestuale. L’AI, per quanto avanzata, manca della comprensione profonda del contesto specifico della vostra azienda o industria che solo voi possedete. Ultimo ma non ultimo, c’è un rischio concreto di disinformazione, poiché le AI senza supervisione possono generare informazioni non accurate o datate.
Invece di cadere nella trappola del copia e incolla, proviamo ad applicare il concetto di co-intelligence alla nostra scrittura in modo più sofisticato e produttivo. Ad esempio, utilizzare l’AI come un partner di brainstorming intellettuale, chiedendole di generare idee o esplorare prospettive diverse. Oppure provare ad applicare il concetto di “Jagged Frontier”, identificando gli aspetti dove l’AI eccelle, come nella ricerca rapida di informazioni, e dove l’input umano è invece insostituibile, come nell’intuizione e nell’empatia.
Una volta ottenuto l’output dall’AI, pratichiamo il pensiero di secondo ordine. Non accettiamo passivamente ciò che l’AI produce, ma prendiamo il tempo di riflettere, rielaborare e contestualizzare. Integriamo le informazioni dell’AI nel testo organicamente, come un artista che mescola i colori sulla sua tavolozza e non come un tecnico che assembla componenti.
La fase di revisione è forse la più importante. Leggiamo il testo con occhio critico eliminando tutto ciò che suona artificiale o eccessivamente formale. Facciamo emergere il nostro tono personale che potrebbe essere più colloquiale, più diretto o più riflessivo di quello tipicamente prodotto dall’AI. Non c’è da temere di introdurre qualche imperfezione o idiosincrasia. Sono questi dettagli che rendono lo scritto autenticamente umano.
Mollick ci mette in guardia contro il rischio di “addormentarsi al volante” – ovvero diventare troppo dipendenti dall’AI al punto da perdere le capacità critiche e creative. In un mondo professionale sempre più automatizzato la nostra umanità – con le sue intuizioni uniche, le sue esperienze irripetibili e le sue prospettive originali – rimane il vero valore aggiunto.
Padroneggiare l’arte della scrittura assistita dall’AI richiede pratica, consapevolezza e un equilibrio costante. È un processo di apprendimento continuo, dove dobbiamo affinare la nostra capacità di collaborazione con lo strumento pur mantenendo la nostra voce unica. Può sembrare un compito arduo, ma i risultati – testi più ricchi di sfumature, prospettive più ampie e una produttività significativamente potenziata – valgono sicuramente lo sforzo.
L’AI è indubbiamente un potente alleato nella scrittura, ma è la sinergia tra umano e artificiale a creare risultati davvero straordinari. Non lasciamo che l’AI scriva per noi, ma facciamoci aiutare a scrivere meglio, a pensare in modo più ampio e a esplorare idee che potremmo non aver considerato autonomamente.
Ma soprattutto, se vediamo due punti e una lettera maiuscola in un testo professionale, forse è il momento di chiederci se stiamo leggendo le parole di un collega… o di un algoritmo particolarmente loquace!