Apple, Riccardo Luna e l’antipatia dei robot

Riccardo Luna ce l’ha raccontata nel solito modo efficace e chiaro. Scrivendo per i lettori di Repubblica, tralascia i dettagli e va subito al sodo. Apple non è riuscita ad automatizzare completamente la produzione dei suoi prodotti. E se non ce l’ha fatta Apple, difficilmente ce la farà qualcun altro. Perché è l’azienda più ricca al mondo e ci ha investito davvero molto.

Provo a integrare un po’ i dati raccontati in due articoli citati da Luna cercando le ragioni per questo cambio di rotta. Poi tenterò anche di instillare un piccolo dubbio che ha a che fare con le avventure dei fratelli Wright.

Apple e i robot

Essenzialmente il progetto deriva da un’illuminazione di Tim Cook che nel 2012 visita in Cina la fabbrica di Foxconn e viene a conoscenza dei piani di automazione attivi.

Otto anni fa, i dirigenti di Apple, incluso il CEO Tim Cook, hanno partecipato a una riunione in Cina, dove hanno visto un video di una linea di produzione sperimentale per iPad gestita da robot anziché da umani. Cook e gli altri dirigenti di Apple hanno visto i componenti dell’iPad viaggiare lungo i nastri trasportatori e venir tagliati, trattati chimicamente, lucidati e parzialmente assemblati con l’aiuto di bracci robotici noti come Foxbot.

Articolo su The Information

La Apple si mette in moto. Lancia in gran segreto un laboratorio di robotica a Sunnyvale nel 2012. Siamo a sei miglia da Apple Park. Ospita un team di specialisti dell’automazione e ingegneri della robotica. Cercano di replicare la soluzione di Foxconn per gli IPad.

Obiettivo è dimezzare la necessità di lavoro umano. Ossia tagliare 15.000 lavoratori. Non ci sono riusciti.

I problemi dell’automazione

I problemi che si sono presentati riguardano aspetti specifici come la precisione nell’utilizzo della colla, la raccolta e il corretto posizionamento delle viti, la rilevazione di eventuali criticità. I lavoratori cinesi più addestrati hanno ottenuto risultati costantemente migliori dei robot in diversi test.

Si nota anche che alcuni di questi aspetti sono di sicuro imputabili a una robotica industriale che si è focalizzata negli anni più recenti su settori come l’automotive che non hanno le stesse complessità della produzione di hardware elettronico.

Il laboratorio è stato ad ogni modo abbandonato nel 2018.

I maggiori investimenti sono stati affrontati per automatizzare la produzione di quello che sarebbe diventato il MacBook nel 2015. La linea di produzione automatizzata è stata avviata l’anno precedente, ma i persistenti guasti hanno fatto abbandonare il programma e ritardare l’uscita del prodotto.

Eravamo già oltre il laboratorio in California. Una fabbrica in Cina era stata pensata per assemblare lo schermo, la tastiera e il trackpad nella custodia del MacBook.

In questo caso i problemi si sono manifestati con il nastro trasportatore che muoveva le parti lungo la linea. Era fuori controllo, in alcuni casi troppo lento. E poi i componenti lungo la linea continuavano a rompersi.

“Se le cose smettono di funzionare, l’automazione non può rilevarlo immediatamente e risolvere il problema”. Luciano Floridi ci potrebbe raccontare che si tratta di una capacità di analisi semantica e non solo sintattica. L’abilità di rileggere il frame di interpretazione del contesto non è ancora così alla portata dei robot.

Non solo problemi tecnici

È importante notare che le questioni tecniche non sono state le sole a mettere in crisi l’esperienza di Apple.

L’azienda di Cupertino riprogetta i suoi principali prodotti almeno parzialmente ogni anno. Questo richiederebbe una riprogettazione davvero impegnativa delle linee delle fabbriche automatizzate. Al contrario, formare i lavoratori su nuovi progetti è molto più semplice e rapido.

Inoltre, il secondo problema era quello della flessibilità della capacità produttiva. Assumere temporaneamente lavoratori richiede un impegno nella formazione e nella gestione delle persone davvero notevole. L’automazione sembrava risolvere la questione.

Apple però aveva già una soluzione soddisfacente per questo problema e cioè l’attivazione nei momenti di picco di altre aziende esterne capaci di integrare la capacità produttiva. Queste fonti alternative potrebbero essere addirittura irrigidite dalla presenza di linee automatizzate.

La fine di una distopia?

Analoghe vicende si sono lette anche per Tesla, Toyota, Boeing e altri big. Qualcuno scorge in questo la fine di un’utopia (o forse di una distopia). Alcuni vedono solo la necessità di un altro decennio prima di raggiungere un traguardo inevitabile.

Gli ingegneri sembrano aver scoperto che gli umani hanno ancora un livello di abilità che è molto difficile da riprodurre con un braccio robotico.

Apple è riuscita ad automatizzare con successo alcune parti del processo di assemblaggio per prodotti come Apple TV, iPad e Apple Watch, ma nel 2018 sembra aver rinunciato alla sostituzione degli umani nella catena di montaggio.

Ciò non significa che il progetto di automazione dell’azienda sia stato chiuso. Più tardi nello stesso anno, Apple ha svelato Daisy, un robot progettato per smontare centinaia di iPhone all’ora e organizzare il riciclaggio dei componenti residui. Un po’ l’opposto dell’obiettivo iniziale. Ma in linea con gli obiettivi green di Apple.

Un altro punto di vista

E veniamo, come promesso all’inizio, ai fratelli Wright e alla conquista del cielo. L’ho raccontato in questo video. Mentre costruivano i loro prototipi, c’era un altro importante personaggio che stava provando a volare. Era Samuel Pierpont Langley e la principale differenza con i due fratelli era una straordinaria capacità di raccogliere finanziamenti per i suoi tentativi.

Una tale disponibilità economica lo ha portato a due importanti esperimenti, basati tra l’altro sull’idea di lanciare l’aereo con una catapulta. Entrambi i tentativi sono stati un fallimento. Tant’è che anche allora i giornali dichiararono che, dopo questa battuta d’arresto, la ricerca dell’uomo nel tentativo di spiccare il volo avrebbe dovuto attendere mille anni. Una settimana dopo i fratelli Wright ce la fecero.

L’approccio dei Wright è stato quello del tipico innovatore in contesti di incertezza. Tanti piccoli tentativi. Numerose e continue scoperte progressive. Pochi soldi sempre spesi con attenzione. L’attitudine di Langley è stata invece quella dei leader di mercato travolti dalle disruptive innovation raccontate da Clayton Christensen.

Uomo contro Robot?

C’è però un ultimo aspetto da considerare. È di natura meno tecnica e più psicologica. Ci piace pensare che le innovazioni che tolgono spazio all’uomo non siano poi così efficaci. Ci dà speranza vedere Kasparov sconfiggere a scacchi il computer. Ci piace vedere impazzire HAL9000. HAL, ossia IBM meno una lettera. Ci piace vedere una locomotiva che corre corre corre e un indiano a cavallo che la supera nel tramonto del West.

È spesso consolante, ma rischia di essere un errore di prospettiva. La tecnologia che migliora la nostra produttività, e sappiamo quanto ne abbiamo bisogno nel nostro Paese (leggete i post su facebook di Massimo Fontana), ci libera e aiuta. Ci dà accesso a innovazioni straordinarie che ci consentono di migliorare le nostre condizioni. I milioni di reietti cinesi che escono da una condizione secolare di afflizione sociale sono un bene. Anche se possono apparire come un rischio per l’equilibrio delle nostre economie. Si chiama convergenza. Ne abbiamo tratto vantaggio anche noi in passato. E la tecnologia più innovativa ci aiuta in questa strada.

Tra neofili e neofobi, ho chiaramente più simpatia per i primi, anche se sappiamo quanti rischi possiamo affrontare in questa strada. Ma i robot “che ci rubano il lavoro” ci regalano anche libertà inaspettate. E ovviamente ci presentano una grande sfida. Che si affronta con lo spirito e i metodi corretti. Senza cercare rifugio e speranza nella fuga all’indietro.

Perché mentre noi ci torneremo a nascondere negli antri oscuri delle caverne, i fratelli Wright saranno là davanti a noi a librarsi nelle nuvole.

By stefanoschiavo