Siamo designer o artigiani? Ovvero l’unico modo per comprendere questa rivoluzione è farne parte

Per noi che ci siamo inebriati delle idee di Roberto Verganti, che abbiamo vissuto una stagione di emozionanti scoperte circondati da designer provenienti da tutto il mondo, che abbiamo frequentato straordinari creativi con uno sguardo visionario sulla società e sulle cose, per noi ciò che oggi sta avvenendo apre questioni importanti e difficili.

Mi riferisco a quanto accade nel mondo della produzione e dell’economia manifatturiera, a Futuro Artigiano e a quanto gira attorno ai concetti che da un po’ esploriamo in prima persona. I problemi si riferiscono al rapporto con i designer, alla funzione di questi in questo nuovo paradigma, alla sintesi tra le nuove professionalità emergenti. La citata design-driven innovation ha rappresentato una visione affascinante che ha dato un senso nuovo alla creatività italiana superando quel complesso nei confronti dello sviluppo formalmente manageriale dell’universo aziendale.

Essa poneva l’accento su un designer in grado di sviluppare un’innovazione radicale di senso e significato partendo da una forte sensibilità nei confronti di quanto emerge nella società, anticipando e mediando tra un proprio approccio personale e i segnali meno espliciti del mercato. 

La centralità del designer, la sua cultura aperta, la sua empatia con lo scorrere delle cose si sviluppavano in una ricerca virtuosa fatta di creatività, perizia e intuizione. Una figura titanica e romantica che forse oggi scricchiola.

Scricchiola perché sta emergendo una nuova figura chiamata in tanti modi diversi, maker, crafter o più sobriamente artigiano. Essa ha un carattere meno eroico, si fonda su una profonda conoscenza materiale, su ore di duro lavoro necessario ad accumulare un saper fare che non può essere studiato a tavolino o imparato sui libri.

La centralità della cultura materiale dell’artigiano sembra un arretramento rispetto alla capacità di lettura dei bisogni latenti della società che caratterizzava il designer. Sembra quasi che l’aspetto tecnico, l’innamoramento per il proprio prodotto, al di là e quasi contro il resto del mondo, prevalga.

Ma così non è. E questa è la grande novità.

L’artigiano di oggi non è chiuso nella sua bottega a provare e riprovare gli stessi schemi, dimentico degli altri e restio ad ogni contaminazione. Al contrario il protagonista di questa sorta di craft-driven innovation apre il suo laboratorio alle persone curiose di sperimentare e recuperare un rapporto con la produzione (spesso autoproduzione), confonde la propria competenza con nuovi stimoli tecnologici più o meno digitali (la stampa 3D, Arduino e tutto l’armamentario dei Fab Lab), viaggia, si arricchisce di esperienze, è aperto alla collaborazione, alla rete, alla trasparenza e a tutto il meglio della cultura “social” dell’ultimo decennio e infine fa il designer e anche qualcosa di più. Si sporca le mani e, parafrasando, sta sopra il suo tempo senza starne fuori.

La figura che ne esce è quanto di più lontano dal vecchio e stantio paradigma dell’artigiano in autoesilio, ma anche da quell’improbabile entità salvifica del designer capace di trasformare in oro ogni suggestione che la società gli offra.

Questa strada battuta da Stefano Micelli sul percorso tracciato da Richard Sennett, che trova echi nelle più recenti evoluzioni californiane (abbiamo ancora in mente la bella serata del Galileo Innovactors’ Festival), mostra già esempi eccellenti, un’economia in sviluppo e un oceano di altri casi che un po’ alla volta stiamo scoprendo e catalogando. Li stiamo conoscendo questi artigiani e parlar con loro non è facile. Stiamo noi stessi assimilando la loro cultura, ci scontriamo con gli stessi problemi e in qualche modo stiamo evolvendo. Fino ciò che abbiamo capito è che l’unico modo per comprendere questa rivoluzione è farne parte.

Il nuovo trend del design, che cambia radicalmente il ruolo dei designer, degli stilisti, degli intermediari culturali tra idea e prodotto, sta sviluppandosi nei centri delle nostre città, in spazi industriali aperti nelle zone più vitali del nostro Paese. La città è fondamentale in questo nuovo Rinascimento che torna alle radici della cultura materiale proiettandola in una nuova estetica di incompiuto e relazioni. Un’estetica in altre parole aperta e partecipativa. The Fab a Verona è un primo esempio virtuoso, con la sua tipografia letterpress Lino’s Type, coworking artigiano, spazio d’eccezione che continuamente esplora questa nuova estetica e in questo modo un nuovo concetto di design.

Dal nostro punto di vista le due figure che abbiamo di fronte non si escludono, ma nemmeno si integrano come fossero professioni complementari. Sono piuttosto da integrare in maniera nuova, con designer meno patinati che cercano il rapporto con l’esperienza produttiva (ho visto di recente un workshop di Lagostudio in cui i giovani studenti producevano le loro creazioni in totale assenza di supporti digitali, come a dire che la creatività cresce nella relazione fisica con la materia) e artigiani che integrino nella loro cultura una certa imprescindibile visione del mondo e delle persone.

 

By stefanoschiavo