Ode al prodotto precario, al primo prototipo non ancora industriale

Ci perdoneranno gli economisti per le considerazioni che scriviamo oggi. Sparse qua e là, senza un quadro unitario. E un po’ banali anche. Sono alcune idee su cosa è per noi un maker

L’altro giorno abbiamo visto un prototipo in un’officina e ci han detto che c’erano volute sessanta ore per farlo. Che a regime, una volta “industrializzato”, non avrebbe avuto quei problemi, che il materiale sarebbe stato quello giusto per la qualità che si voleva trovare e per il prezzo che si voleva raggiungere. Che le imperfezioni evidenti a tutti erano figlie di quelle tante ore di ripensamenti e dubbi e lavoro umano, ma poi “tutto sarebbe cambiato” con la produzione di migliaia di pezzi tutti uguali, perfetti, puliti e sostenibili.

La democraticità del design, pensavamo noi, richiede quella banalizzazione del prodotto e del processo per realizzarlo. Come le macchine fotografiche alla portata di tutti e non quei laboratori ambulanti di due secoli fa… Macchinari più o meno impegnativi e la cultura delle persone che le sanno usare, la ricerca sui meccanismi e sui movimenti di persone e materiali.

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Ma in mano a tutti l’oggetto si abbassa inevitabilmente di valore. Non solo perché è poco esclusivo, ma anche perché, come nel caso delle foto scattate ogni giorno dai nostri smartphone, trasformate e trasfigurate da Instagram e Facebook, la diffusione impoverisce la cultura, perché da appassionati visionari ed entusiasti pionieri si passa a chi si diverte a tempo perso… e non diciamo che necessariamente è male…

Ci siamo chiesti quanto valesse quel prototipo. Come determinarne il prezzo? Con le ore spese sarebbe stato davvero arduo perché sessanta ore per un oggetto di quel tipo sembrano davvero tante. Si andranno a ripartire, ci dice il controller aziendale, nel margine che faranno i suoi figli, migliaia di pezzi in rapida serie in cui mezzora di lavoro basta e avanza. Al millesimo pezzo (break-even point c’ha detto) sarebbe scomparso anche il ricordo di quelle prime squinternate ore.

E quindi il prototipo non si vende, ha aggiunto, ma a noi sembrava un peccato. Le ore spese a pensare, scoprire e inventare sono davvero solo un costo da ammortizzare? Un’inevitabile perdita di valore da coprire con un margine adeguato per il prodotto realmente distribuito? Ma in quel prodotto, quello in vetrina intendiamo, c’è dentro ancora tutto quel che è successo nella fase di ricerca? O forse lo scotto per portare a tutti la bellezza si porta dietro una perdita immensa? Anche fosse identico e perfetto il primo pezzo prototipo e si arrivasse poi solo a produrre quello in vendita in una frazione del suo tempo, sarebbero uguali i due prodotti?

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Seguire un’altra strada, di nicchia direbbero, di non industrializzazione, di preservazione dell’unicità, dell’esperienza della scoperta, richiederebbe un racconto adeguato, una fabbrica lenta, un rapporto diretto tra l’inventore e le persone che acquisteranno quell’oggetto… Ma bisogna capirsi… Nicchia non vuol dir soltanto un pubblico educato, racchiuso in un pensiero adatto a pochi capaci di comprendere il valore dei tannini di un brunello, del profumo di una resina sul metallo, del suono del motore di una Ferrari.

Nicchia vuol dire anche capire il valore di un errore, del tempo perso a trovare una soluzione a un problema che non sembrava alla portata. E’ una nicchia democratica, concessa solo adesso dagli spazi nuovi di comunicazione e distribuzione. Una nicchia non ad alto costo economico, ma ad alto impegno relazionale, una nicchia culturale in qualche modo. E non si può fondare sull’attuale modo di coprire i costi, i margini del canale di distribuzione, dell’equilibrio dei costi fissi della struttura industriale. Non ci si sta dentro in questo modo e in qualche modo non sarebbe nemmeno corretto per chi inventa chi produce e chi compra alla fine.

La struttura dei costi di un maker/artigiano come lo stiamo intendendo non è granché sostenibile in una supply chain organizzata per economie di scala. Anche solo per la mancanza di costi fissi individuali. L’unica strada sembra quella di andare su di prezzo per coprire l’azione di tutti gli intermediari e poi fare una promozione / comunicazione non gestibile dal singolo… e da qui nascono Formabilio, Fab.com, Zanoby e così via.

Altra strada è rifondare il modello logistico e il canale di vendita, ma non è di breve termine… Ci piace l’idea di disintermediazione anche della fase produttiva e non solo di vendita… il contatto diretto (peer-to-peer) designer consumatore con semilavorati di grande produzione in scala e idea/finitura direttamente venduta dal designer/maker al consumatore che si finisce il prodotto in casa… atomi come bit si diceva… Le idee di Stefano Maffei in questa direzione ci piacciono sempre… Il web sembra aiutare.

Vediamo ogni giorno straordinarie persone che cercano e trovano un modo nuovo di fare le cose. Bisogna farle uscire dal loro anonimato e questa è l’essenza del lavoro di un Maker, come noi lo pensiamo ed intendiamo, non di certo l’utilizzo di un chip o di una saldatrice, che sono la tecnica, ma non la cornice.

By stefanoschiavo