Liberiamoci dei canvas, se vogliamo innovare

Il business model canvas e altre griglie rese celebri negli ultimi anni da diversi libri presentano un grave rischio. Se utilizzati con accuratezza all’inizio di un progetto di innovazione, possono nascondere un approccio che porterà al fallimento dei nostri sforzi. Si tratta di un caso tipico in cui lo strumento diventa una zavorra che ci impedisce il movimento più libero di cui avremmo bisogno. Vediamo perché e come fare per evitare questo rischio.

La trappola del canvas

Quando ho scritto La trappola del business plan ero estremamente conscio dei limiti di una pianificazione troppo dettagliata. Ce l’avevo con la minuziosa redazione di documenti che descrivevano gli step futuri di business ancora in fasce. Era un approccio inadatto allo scopo vero di una prima fese progettuale. Ossia porsi dei dubbi e imparare.

I modelli di business erano meglio descritti da un canvas pieno di ipotesi da validare che da un diagramma di Gantt. Che non andava di certo sempre scartato, ma più probabilmente utilizzato in determinati contesti di pianificazione. Allo stesso modo i business plan e i business case non erano condannati all’oblio. Piuttosto relegati a una fase successiva. Era il Canvas che si prendeva tutta la scena. Ma con un rischio…

Salvagenti di cemento

David Epstein ci racconta in Range la storia dei pompieri sopraffatti dalle fiamme che non riescono a fuggire perché non abbandonano gli strumenti che avrebbero utilizzato per spegnerle. Quando una risorsa che consideriamo utile diventa un intralcio, facciamo fatica a liberarcene. E così può essere per canvas & co.

Quando si esce da scuola si manca di esperienza e ci si aggrappa a modelli astratti. Nel marketing abbiamo customer journey, funnel di conversione, piani editoriali e così via. Schemi utili a organizzare le idee. A mediare tra la nostra visione e la realtà del mondo. Ci guidano e ci sorreggono dandoci metodo. Ma anche facendoci pensare un po’ meno e compilare di più. Da analisti attivi di una realtà complessa a redattori coscienziosi di schemi strutturati. Come un cuoco che seguisse minuziosamente una ricetta.

Inventarsi la ricetta

La ricetta è un buon esempio per comprendere anche un altro aspetto del vincolo dato dallo schema. Un cuoco dispone gli ingredienti sul tavolo di lavoro. La ricetta può essere inventata o già consolidata, creativa o tradizionale. Quello che succede è che prima di tutto gli oggetti sono organizzati sul banco secondo le relazioni che intercorrono tra essi e i tempi di esecuzione. Non ci sono spazi, territori, prefissati in cui disporre tutto.

In altri casi nemmeno la lista degli oggetti della nostra analisi è predefinita. A volte nemmeno la ricetta per metterli in relazione. Partire dagli oggetti della pianificazione esplorando liberamente le loro caratteristiche e le loro relazioni ci permette di non cadere in quell’approccio compilativo di cui parlavo sopra.

Partire dagli ingredienti

Solo più tardi, quando la confusione di una disposizione caotica di elementi incongruenti ha fatto il suo corso, possiamo imbrigliare queste relazioni in una ricetta, in uno schema, in dei territori. Il business model canvas, l’empathy map, il value proposition canvas e tanti altri strumenti di lavoro di chi si occupa di innovazione delimitano territori. E lo fanno troppo presto.

Seguire la ricetta ci dà sicurezza. Ma ci lega a uno schema che non abbiamo costruito. Che è meno nostro. Si nota spesso un’attitudine di questo tipo, come dicevo, in chi manca di esperienze concrete e si deve aggrappare a chiavi interpretative standardizzate. Ho spesso raccontato del modello Shu Ha Ri giapponese in cui chi apprende per prima cosa copia pedissequamente dall’insegnate. Poi ripetete il gesto appreso individualmente, ma senza tradire l’insegnamento. E poi spicca il volo tradendo il maestro.

In qualche modo l’utilizzo del canvas è parte delle prime due fasi. Ma diventiamo maestri quando ci liberiamo di esso.

Oggetti disposti nello spazio

C’è un bel libro che esplora il modo in cui comprendiamo le cose. In Figure it out di Stephen P. Anderson e Karl Fast c’è un capitolo dedicato alla rappresentazione spaziale. E propone un framework di riferimento. “Objects, Placement, Territory”. Quando organizziamo informazioni nello spazio disponiamo oggetti piazzandoli in territori.

Se facciamo il bucato, prendiamo i vestiti e li disponiamo secondo un criterio legato al ciclo di lavaggio più adatto (colorati, sintetici, …). Oggetti disposti attraverso rapporti predefiniti. Non abbiamo un territorio delimitato, ma potremmo creare diversi contenitori per predefinire la destinazione del vestito riposto per il lavaggio.

Se giochiamo a tris, croci e cerchi sono oggetti che rappresentano i due giocatori. Li disponiamo in righe e colonne nello spazio. Aggiungiamo quattro linee per creare un territorio fatto di nove riquadri.

Lo stesso vale per il visual management dove i task di un progetto sono rappresentati da oggetti, ossia i post it, di diversi colori e con vari contenuti scritti, che sono disposti in colonne e righe che rappresentano periodi temporali o fasi di un processo stage and gate. O al limite tre semplici fasi di un Kanban: “to do, doing, done”. Se aggiungiamo le etichette sulle colonne dello schema abbiamo individuato dei territori ben definiti.

Sono tutti “oggetti disposti in territori”. È un modello che richiede diverse precisazioni per far fronte alle contestazioni. Esistono strutture nidificate come la lista dei voli in una ricerca online. Per ogni volo abbiamo un’altra griglia che ne descrive i dettagli. Abbiamo anche modelli astratti fatti di relazioni e territori, ma senza oggetti che cambiano. Pensiamo alla piramide di Maslow. Che però sintetizza e assolutizza oggetti desunti dall’esperienza e dalla ricerca passata.

Rompere la griglia

Qualche giorno fa, il mio team stava mappando un processo di un’azienda molto complessa. E la swim lane sembrava, ed era, il modello di rappresentazione ideale per leggere il flusso delle attività. Permetteva di vedere chi faceva cosa nel tempo secondo un flusso utile a capire ruoli, interazioni, ridondanze e aree di miglioramento. C’ era però un problema che mi è balzato quasi immediatamente agli occhi. Quel tipo di rappresentazione descriveva in modo molto preciso l’universo dell’esistente e del conosciuto. Non lasciava spazio a una lettura realmente divergente. Imbrigliava e limitava troppo presto l’analisi.

La swim lane mancava di evidenziare elementi che non appartenevano alla mappa corrente. La soluzione è stata semplice. Mettere in ordine quella sequenza. Prima gli oggetti da rappresentare. Poi le loro connessioni. E solo alla fine, forse, le colonne. Ci siamo così liberati delle griglie e di un diagramma di flusso. Le attività si sono ridistribuite in una mappa mentale di solito inadatta a questo scopo. E però ha funzionato. Oggetti, relazioni, territori.

Quando va bene il canvas?

Come nel caso del business plan, non voglio dire che il canvas sia da buttare. Il canvas è un territorio ideale per posizionare degli oggetti. Ma la fase di analisi e scoperta, lo studio delle relazioni reciproche vanno fatti su schemi liberi. Una divergenza fatta di pragmatismo.

Per disegnare la piramide di Maslow serve aver visto molte persone bruciare di invidia pur guadagnando tanti soldi. Serve aver visto l’abbrutimento della fame. O l’ebrezza del successo. Serve leggere romanzi. E solo poi studiare i modelli economici.

By stefanoschiavo