La California, gli italiani, il declino e un difetto nel racconto

Qualche settimana negli States insegna molte cose. Vediamo qui da noi tanti racconti pieni di ammirazione per la velocità con cui là si sviluppa l’innovazione, per la facilità con cui una buona idea trova accesso a capitali e relazioni, per una competitività sana che premia il merito e il coraggio… C’è chi auspica un futuro californiano per il nostro Paese, afflitto ahimè da tanti mali che ogni giorno ci vengono senza pietà presentati in notiziari, giornali e nei social network. Anche e specialmente nei social network. Astiosi o disincantati, sarcastici o collerici, i racconti dei nostri amici su Facebook e Twitter paiono più estreme unzioni (se non constatazioni di decesso) che non analisi critiche del nostro stato di salute.

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Ma venti giorni in California, Oregon, Washington che hanno seguito più periodi a New York, un coast-to-coast nel cuore più profondo degli Stati Uniti, qualche presenza a Chicago, Boston, e il confronto con tanti amici che là stanno lavorando o stanno per farlo, o con chi lì è nato e qui si è spostato, forse ci hanno portato a vedere alcune altri aspetti che non confortano la nostra diffusa voglia di autocommiserazione e quel desiderio inconfessabile di declino…

 

Non parliamo di sostenibilità della crescita, di equità sociale o di trionfo dell’economia sulle relazioni umane, di mancanza di stato sociale o di pervicace azione di controllo manu armata sul resto del mondo. Non ne parliamo perché in fondo in fondo a questi temi non crediamo. Fanno parte di una retorica che non trova troppo riscontro nella realtà che conosciamo. Se la nostra spesa pubblica non è sostenibile, dobbiamo andare incontro a dei cambiamenti, e lo spauracchio di una società americana disintegrata e con un coefficiente di Gini sproporzionato sembra solo l’ennesimo appello retorico a una diversità europea che nasconde privilegi e caste non più sopportabili.

Altro ci sembra quello che non va nel racconto apologetico su una California ridente di spiagge e startup. E non lo cerchiamo in qualche presunto difetto di quella realtà, ma in qualcosa che non va nel racconto che facciamo su di noi. Non è l’America ad esser venerata, ma è il nostro Paese che troppo spesso viene letto male. Qualche giorno fa ho seguito uno sfogo acido e divertente, sì dai diciamolo che due o tre passaggi mostravano una sana verve, in un post che il nostro amico Alberto ha condiviso su Facebook, una sorta di minipamphlet contro l’italiano medio che sale su un aereo.

Ne faceva uscire le pessime abitudini, dal classico familismo amorale che passa sopra ogni regola di convivenza civile pur di far prevalere l’interesse particolare, alla furbizia del volpone che prova sempre a fregare l’autorità, schiavo del loop pago-comando-pretendo, pronti a concedere tutto ai figli, al di là di ogni dovere, dove i diritti sono spesso calpestati dalla corruzione… Italiani bisognosi di una guida, di un duce cui attaccarsi per tornare cheti cheti all’ovile…

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Ho pensato che giusto è far emergere i nostri difetti per spronare a migliorarci, a conquistare nuovi gradi di civiltà… in fondo non siamo proprio allo stato di natura e qualche progresso saremo pur in grado di farlo anche noi. Poi però mi è venuto in mente Sebastiano e la sua idea che il racconto determina i fatti e non viceversa. Non so se Sebastiano pensava esattamente questo quando mi parlava di riprendere in mano il racconto sull’Italia, troppo spesso composto da chi ne ama la perdizione per i più diversi motivi e interessi. Sicuramente c’è qualcosa che ci insegna la semiotica, un po’ come mi ha raccontato Marco qualche giorno fa. Pensiamo nel modo che ci permettono le nostre parole. Il pensiero è funzione del linguaggio.

Non è questione di negare la mafia, di nascondere i difetti, di camuffarsi, ma di leggere le nostre attitudini anche, e diciamo anche, in altro modo.

Un racconto dialettico in cui una certa sfrontatezza verso le regole può essere letta come autonomia di giudizio, intelligenza e spirito critico. Un’irriverenza verso la burocrazia commerciale e statale che è figlia di una consapevolezza del valore del lavoro. Solo chi rispetta il lavoro pretende un servizio adeguato a quanto speso, perché conosce il valore dei soldi guadagnati con lo sforzo umile della propria attività. Allo stesso modo la cura dei vicini, parenti, amici e conoscenti, con quella tipica attitudine al volontariato e al risparmio, denota un amore per le relazioni individuali e concrete, tanto lontane da un astratto principio d’ordine che non permette sempre di costruire una società. La relazione umana è principio di un’etica sociale che spesso manca nelle relazioni commerciali di una corporation. Questo spirito porta a una tradizione di anarchia individuale che non rispetta il potere e ne consente un ribaltamento come avvenuto in pagine importanti della nostra storia. Totò e Amici miei, Dario Fo e Fortebraccio, Vincino e Guareschi.

E nel concreto non ci è voluto molto a vedere che le fattorie biologiche osannate sui blog e in grandi catene di retail nelle metropoli della west-coast non sono nemmeno vicine allo standard cui un cittadino medio di una cittadina del nordest italiano è abituato. Uno standard che si ricollega più alla Germania e alla Scandinavia che a un Paese in cui montagne di prodotti vengono sprecati e consumati quotidianamente in un’ipertrofica corsa all’accumulo senza senso. Cultura. Ecco cosa ci distingue. Che sia quella che ci permette di riciclare il 60% dei rifiuti o di produrre la biodiversità di Eataly e Slowfood nell’agroalimentare o ancora di pensare e realizzare prodotti straordinari di design e stile in piccoli centri di provincia apparentemente così lontani da dove pulsa l’innovazione, ma così pieni di consapevolezza artigiana che intride appunto di cultura l’azione concreta del lavoro umano.

Bisogna raccontare questi aspetti e molti altri. Raccogliere le storie e le persone che possono fare la differenza. Quelle che a noi capita di incontrare quotidianamente. Produttori, creativi, consulenti e venditori. Autentici campioni di competenza e umanità. C’è un mondo che li aspetta perché ha una disperata necessità di questi contenuti, di queste attitudini e di questo spirito che non si trova altrove e che rischia di perdersi in un cupio dissolvi collettivo e insensato.

By stefanoschiavo