Ho passato 10000 ore con i millennials e ho scoperto una cosa

C’è un grosso equivoco che riguarda le competenze digitali in genere. Quelle che tutti dicono essere alla base del nostro futuro nell’era esponenziale. È un equivoco che si collega alla confusione tra abitudine alla tecnologia e comprensione delle sue potenzialità. E questo equivoco prende maggior forza quando i protagonisti sono i millennials (o giù di lì).

Li sto incontrando spesso. Ci sto lavorando. Sono stato ingaggiato da aziende e scuole di business e ho visto più di 10000 ore di loro lavoro nei più diversi contesti. È una prospettiva ancora ristretta, lo so. Sono i “talenti”, assunti da aziende dopo una selezione sulle migliori risorse in circolazione. Spesso appassionati e determinati a intraprendere una carriera professionale ambiziosa. Non sono statisticamente significativi. Ma in questa selezione della “meglio gioventù” del business, l’equivoco di cui sopra si è proposto in maniera ancora più netta.

Provo a raccontarlo partendo dai comportamenti più comuni che ho visto emergere. Vorrei alla fine proporre qualche idea attorno a cosa sia oggi la competenza digitale più difficile da riscontrare. E, sì è uno spoiler, non è il coding.

Categorie generazionali sopravvalutate

Spesso penso che le categorizzazioni generazionali siano sopravvalutate. Che ho trovato così simili nello spirito e nell’atteggiamento professionale Laura e Michela. Laura, cinquantenne esperta di logistica a Preganziol, e Michela, innovation manager trentenne di Monza. Le vedo reagire a problemi con la stessa determinazione. Le ammiro mentre trascinano un team in un progetto difficile e rischioso. Ne apprezzo l’intuizione che le rende reattive ed efficaci anche in situazioni complesse. Lontane anagraficamente. Eppure così simili.

Ma tant’è. A furia di accompagnare i giovani talenti in Project work, Innovation Academy, Talent Program e così via, qualche pattern mi sembra di averlo scovato.

Un gioco eloquente

Esiste un gioco che faccio spesso nelle mie sessioni con i clienti. Non ve lo racconto nei dettagli, ma vi spiego la struttura. I partecipanti costituiscono un’unica squadra. Ricevono ognuno una serie di informazioni. L’insieme di tutte le informazioni permette di risolvere un enigma. Ma i partecipanti non possono condividerle se non parlando. E quindi, dopo trenta tipici secondi di imbarazzo, parte il confronto. In quindici o venti minuti arrivano alla soluzione che mi comunica uno di loro.

Dopo ripetute esperienze con il gioco, mi sono accorto che esiste una netta differenza nel modo in cui i più giovani affrontano il momento della condivisione, rispetto al management più attempato.

  1. Mentre un manager più anziano propone sempre di leggere una per una tutte le informazioni a voce alta per avere il quadro complessivo del problema, i ragazzi tendono a far partire il primo che si propone e poi parte un intervento dietro l’altro che si ricollega al primo integrando le informazioni più rilevanti. Esattamente come in una sequenza di link di un sito web.
  2. Tra le informazioni ci potrebbero essere elementi inutili, ma i partecipanti non lo sanno. I manager anziani li leggono tutti per concordare insieme se l’informazione possa avere qualche valore quando condivisa con gli altri. I giovani decidono di non comunicare qualcosa perché hanno già capito che si tratta di qualcosa di non significativo. Selezionano autonomamente i contenuti rilevanti.
  3. Alla fine della discussione, il personaggio più carismatico emerso nella discussione si prende in carico di dare la risposta da parte dell’intero team. E questo accade sempre nei team più giovani che si affidano a un portavoce. Che puntualmente sbaglia lo spelling della soluzione, che sta nelle informazioni di un altro. I manager delegano la risposta a chi, magari non così estroverso, ha però l’informazione scritta tra le carte che ha ricevuto all’inizio.

Ci sono molte altre cose che emergono da questo interessante gioco, ma queste sono quelle che sembrano avere una relazione con un modo di pensare più giovane e “digitale”.

  • Link e connessioni progressive, anziché una raccolta enciclopedica di tutte le informazioni a disposizione.
  • Selezione autonoma e non condivisa di quanto ritenuto significativo.
  • Delega al più carismatico anziché al più competente.

La mia vita con TikTok

Ho provato a gestire un account su TikTok e devo dire che mi sono divertito molto. I tool di editing dei video sono davvero ben fatti. La possibilità di creare rapidamente dei contenuti che ti avvincono è notevole. Si tratta di remixare contenuti, farsi guidare da un algoritmo che ti anticipa le mosse, che ti adegua alle aspettative del mondo lì fuori. Il tuo registro di comunicazione si omologa, ma il risultato è mediamente buono.

E anche quando, invece di creare contenuti, li scorri, beh, la vita è semplice. In meno di un secondo capisci se valga la pena guardare o meno un contenuto. Ti scorrono davanti migliaia di brevi video e rapidamente decidi. Pollice in su o pollice verso. Non devi assistere a un combattimento in un’arena. Il tuo giudizio è una ghigliottina seriale che si fonda su percezioni di attimi.

Sembra orribile. E invece è un bell’esercizio.

La selezione in mezzo al caos

Ne esci con la capacità di discernere la rilevanza di quanto ti sta attorno secondo criteri che non governi appieno. Sì. Intanto alleni l’algoritmo a capirti e rinchiuderti in una bolla che poi ti cambierà il pensiero, ma lasciamo questo effetto collaterale a un altro post. Più interessante è la competenza della selezione, quella stessa che emerge nel gioco che raccontavo prima. I ragazzi che scartano le informazioni più rilevanti da quelle inutili, devo dirlo, non sbagliamo mai. Mai.

Lo apprezzo molto. Siamo otto miliardi di persone, quasi. Ci sono dati che non possiamo governare più. Un esperto di musica, o di letteratura, o di astrofisica, non può tenere sotto controllo tutto. Rimanere aggiornato. È un inseguimento demotivante. A meno che non si sappia scegliere velocemente. Capire dove valga la pena concentrarsi. Una specie di industrializzazione dell’analisi di Pareto. Funziona? Non sempre, ma non importa. Si passa dalla sindrome di controllo a una selezione naturale personale sulle informazioni che ci scorrono attorno.

Dove sta il problema?

Non voglio addentrarmi sui risultati di questa evoluzione. Magari buoni, magari pessimi. Sicuramente un certo grado di superficialità da teenager cinese lo si sviluppa. Quando creo il video, mi serve un’intuizione sul mood e il montaggio più efficace e poi ogni pensiero più profondo sul contenuto diventa un disturbo al processo. Ma secondo me questa superficialità sarà sostituita da una profondità statistica che la compenserà. No. Non sta lì il problema.

L’equivoco sulle competenze digitali

L’equivoco sulle competenze digitali sta per me altrove. Riguarda non tanto questo trend verso un’inevitabile propensione alla selezione rapida e superficiale. Che è un bene per affrontare il contesto odierno. Il problema riguarda l’indagine sulle fonti. Quando serve andare oltre la selezione per costruire la base di informazioni su cui applicare le abilità selettive. Beh. Lì i millennials che ho incontrato hanno grossi problemi. Ma non dipendono da TikTok. Che fa il suo lavoro.

Il problema riguarda l’abitudine a svolgere un compito preciso. Che tutta la scuola, da troppo tempo, passa il tempo a insegnarci.

La maestra ci dà delle informazioni e ci fa una richiesta. (“La mamma manda Pierino a comprare le mele. Gli dà 5 euro. Le mele costano 0,5 euro l’una. Quante mele compra Pierino?”). Noi troviamo nella nostra memoria la formula giusta per il compito. (“Somma? No… Moltiplicazione? No… Divisione, forse… Sì…. Aspetta come funziona la divisione? Ah sì… Ricordo…”). La applichiamo perché oltre a ricordarla sappiamo anche applicarla bene. (“Ecco… 5 diviso 0,5… Oddio… Come si divide per un decimale? Ah sì… È come 50 diviso 5… 10… Ecco sì la risposta è 10 mele!”). E diamo contenti la risposta alla maestra. Input, elaborazione, output. Esattamente quello che sanno fare molto bene le macchine. E i robot che notoriamente ci ruberanno il lavoro. Se continuiamo a fermarci a questo apprendimento.

Le competenze “nostre”

Ma le nostre caratteristiche differenzianti non sono la selezione delle informazioni rilevanti, il ricordo della formula giusta, l’applicazione della formula in modo corretto. Noi eccelliamo nel pensiero critico che mette in discussione l’ambito di definizione del problema e la vera natura delle informazioni che ci giungono. E poi, saper guidare una macchina non significa sapere che direzione prendere e dove andare. Usare un’app sul cellulare non significa avere una “competenza digitale”.

Nel gioco di prima, potrei chiedermi se abbiamo tutte le informazioni. Se le informazioni siano anche da altre parti. E poi magari ampliare il frame. Ripensare il frame del problema. Sono azioni che potrebbero portarci altrove. A individuare nuove letture, nuove opportunità. A reagire a situazioni imprevedibili.

Uscire dal frame

Ecco. Su questo piano non ci siamo. Ci sono molti altri giochi che introducono il tema della complessità. Dei contesti VUCA. Dell’ambiguità e dell’incertezza. E qui i vecchi se la cavano meglio. Perché possono usare l’esperienza e la reazione a pattern su cui hanno dovuto lavorare con anche dolorose conseguenze. Cicatrici capaci di insegnare. Lentamente. A leggere contesti mutevoli. Hanno insegnato a relativizzare. Ad aspettare e vedere come procede anziché giungere a decisioni troppo repentine.

In altre parole la selezione rapida, la capacità di decidere priorità e rilevanza in una massa indistinta e confusa di dati è a vantaggio della generazione digitale. Che si muove per link e contenuti parziali. Che è agile e adattiva.

Ma la rilettura del punto di partenza. La messa in discussione delle informazioni che superficialmente scorrono sui nostri video. Queste sono cose che non stanno per niente nella testa di un ragazzo uscito da un percorso di studi orientato a prendere voti buoni agli esami secondo criteri nettamente confrontabili.

Cosa ci insegnano a scuola

Un professore universitario mi raccontava recentemente delle sue lotte quotidiane per spiegare “perché il tuo compagno ha preso 27 e tu 26” e poi rispiegarlo ai genitori indignati per la mancanza di trasparenza e chiarezza su come funziona il criterio di valutazione.

Il criterio di valutazione. L’algoritmo su cui misurare le competenze dei neolaureati, con queste aspettative di certezza della valutazione corretta, valuterà l’esecuzione del compito. Premierò la risposta “10 mele”.

La maestra sarà soddisfatta della risposta. Dell’impostazione del problema. Dello studio del bravo alunno. L’alunno sarà contento. I genitori saranno felici e orgogliosi. Solo il pensiero critico rimarrà un po’ deluso di non trovare spazi di espressione. E di allenamento. E quando gli occhi dello studente si incolleranno sullo scorrere dei video di TikTok, il pensiero critico si nasconderà definitivamente. Nella soddisfazione di pressoché tutti gli attori in gioco.

By stefanoschiavo